Herman Melville e il capitano Achab

HERMAN  MELVILLE

 

 A cura di Giuseppe Cetorelli

 

(New York 1819-1891) scrittore statunitense. Figura di primo piano della letteratura americana, esplorò temi psicologici e metafisici anticipando argomenti che avrebbero attratto l’interesse degli scrittori del Novecento. Le sue opere rimasero nell’oscurità fino agli anni Venti, quando il suo genio fu infine riconosciuto. Nato da una famiglia decaduta finanziariamente, nel 1837 si imbarcò come mozzo su una nave in partenza alla volta di Liverpool. Subito dopo il ritorno negli Stati Uniti fu insegnante e poi, nel 1841, partì per i mari del sud a bordo di una baleniera. Fra le sue attività si annoverano quelle di bracciante e marinaio, dopo il congedo che ebbe luogo nel 1844 cominciò a scrivere romanzi basati sulle sue esperienze e prese parte alla vita letteraria di Boston e di New York. Dopo un viaggio in Europa va a vivere in una fattoria del Massachusetts e inizia Moby Dick (1851), il suo capolavoro su cui influisce l’incontro con lo scrittore Nathaniel Hawthorne.

Melville approdò alla letteratura dopo aver trascorso, come abbiamo detto poc’anzi, alcuni anni come marinaio nella marina mercantile. Poi su una baleniera. A ventisette anni esordì con Typee (1846), romanzo a sfondo esotico basato sulle sue esperienze di viaggio, sul temporaneo inserimento nella primitiva armonia delle popolazioni indigene della Polinesia, sull’ambigua, avventurosa fuga verso la “civiltà”. Questo stesso scenario fa da sfondo al successivo Omoo (1847), che accrebbe la notorietà di M. riaccendendo il dibattito sulle critiche da lui mosse all’operato dei missionarî in quelle terre, e al più ambizioso e composito Mardi (1849), in cui M. tenta, con risultati alterni, la via dell’allegoria religiosa e politica. Con Redburn (1849) e White jacket (1850), le dinamiche interne all’organizzazione gerarchica della vita di bordo, già vista come microcosmo turbato da un più ampio conflitto di passioni umane, divengono il nodo centrale dell’indagine critica di M., anticipando, seppure soltanto in embrione, il complesso sviluppo e la dimensione tragica cui quello stesso motivo verrà piegato in Moby Dick. La stratificazione di registri linguistici mutuati dalla Bibbia e dai modelli classici, dal teatro shakespeariano e dal linguaggio scientifico moderno, dà al testo melvilliano uno spessore mitico e un respiro che rendono quest’opera – che l’autore dedicò all’amico N. Hawthorne – unica nel suo genere. Il naufragio editoriale di Moby Dick contribuì al precoce declino della vena narrativa di M., che col fallimentare esperimento nel genere psicologico, Pierre, or the ambiguities (1852), e con la scabra satira di The confidence man (1857) avrebbe concluso, non ancora quarantenne, la propria attività di romanziere. A The piazza tales (1856), una raccolta di racconti in cui compaiono lo splendido Bartleby, the scriv ener e Benito Cereno (come Moby Dick tradotto in italiano da C. Pavese), faranno seguito le sue opere in poesia, Battle-pieces and aspects of the war (1866),Clarel (1876), i libri di viaggio e l’incompiuto Billy Bud (post., 1924), racconto lungo di cupa bellezza.

IL CAPOLAVORO. Moby Dick è il romanzo che fonda la letteratura americana, in esso la visione tragica di Melville arriva a maturazione unitamente alla potenza di narratore di fatti e al mirabile stile “metafisico” plasmato su Omero, la Bibbia e Shakespeare, e passato per un filtro di serenità che lo rende estroso, ricco di humour. Il racconto d’avventure nei mari del Sud è nel contempo una ricerca filosofica. Tema centrale del romanzo è il conflitto tra il capitano Achab, alla guida della baleniera Pequod, e Moby Dick, una grande balena bianca (un capodoglio) responsabile di aver mutilato Achab di una gamba. Deciso a vendicarsi, Achab si dirige con il suo equipaggio, di cui fa parte il narratore della storia, Ismaele, alla ricerca disperata del nemico. I cardini attorno ai quali ruota questa grande epopea, ricca di allegorie del tragico conflitto tra il bene e il male, sono lo splendido sermone pronunciato dal capitano prima della partenza e  i soliloqui dei membri dell’equipaggio. Moby Dick è insieme epopea omerica e denunzia biblica di colpe, profezia di punizioni e tragedia gotica piena di sangue e di morte, nelle cui pause si celebra non l’azione predace ma la “divina inerzia”.

L’esordio del romanzo è tra i più celebri della letteratura americana e non solo, il narratore si presenta :

“Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa che io vi dica quanti – avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m’interessasse a terra, pensai di mettermi a navigare un pò, e di vedere così la parte acquea del mondo…”  

Il capitolo CXXXII, La sinfonia, è un capolavoro nel capolavoro. Solenne e meditativo il protagonista dialoga con l’oceano, con se stesso e con le forze incontenibili della natura.  La celebre traduzione di Cesare Pavese ne rende in maniera esemplare la sua grandiosità.

l
CXXXII LA SINFONIAEra una limpida giornata di un azzurro acciaio. I cieli dell’aria e del mare non si potevano quasi distinguere in quell’azzurro che tutto pervadeva; soltanto, l’aria pensosa era di una purezza e dolcezza trasparenti, come di donna e il mare gagliardo e virile, si gonfiava in ondate lente, lunghe, e poderose, come il petto di Sansone nel sonno.
Qui e là, in alto guizzavano le ali, bianche come neve, di piccoli uccelli immacolati: erano i pensieri delicati dell’aria femminea; ma giù, negli abissi dell’azzurro senza fondo, passavano e ripassavano enormi Leviatani e pesci-spada e squali, e questi erano i pensamenti vigorosi, agitati e assassini del maschio mare. Ma, sebbene tanto contrastanti nell’intimo, l’ esteriore contrasto era soltanto di riflessi e ombre; quei due parevano uno solo, era soltanto il sesso, per dir così, che li distingueva.
Arriva come un zar e un re maestoso, il sole pareva consegnare quell’atmosfera leggera a quell’audace mare rollante, come la sposa allo sposo. E alla linea di cintura dell’orizzonte, un movimento molle e tremolante – che si vede specialmente qui all’equatore – rivelava la fede appassionata e palpitante, gli amorosi timori, coi quali la povera sposa donava il suo seno.
Impedito e stiracchiato, fatto nocchioso e ritorto dalle rughe, selvaggiamente risoluto e ostinato, con gli occhi vividi come carboni ancora ardenti nelle ceneri della rovina, l’inflessibile Achab uscì nella limpidezza del mattino, alzando l’elmo frantumato della sua fronte, alla fronte celeste della bella fanciulla.
Oh infanzia immortale e innocenza dell’azzurro! Invisibili creature alate che ci scherzano intorno! Soave fanciullezza dell’aria e del cielo! Quanto lontane eravate dall’attorcigliato dolore del vecchio Achab! Ma così ho già veduto le piccole Miriam e Marta, elfi dagli occhi ridenti, saltellare spensierate intorno al vecchio padre, giocando col cerchio di capelli abbruciacchiati che gli crescono in margine al consunto cratere del cervello.
Traversando lentamente la coperta del portello, Achab si piegò alla banda e guardò come l’ombra dentro l’acqua affondava e affondava al suo sguardo, quanto più lui si sforzava di penetrarne la profondità.. Ma i dolci aromi di quell’aria incantata parvero alla fine dissipare, per un attimo, l’oggetto canceroso nel suo cuore. Quell’aria beata, felice, quel cielo ammaliatore, lo afferrarono in fine carezzevoli; la terra matrigna, da tanto tempo crudele, repulsiva, gettava braccia ora braccia appassionate intorno al suo collo ostinato, e pareva singhiozzare su di lui dalla gioia, come uno che, per quanto indurito e peccatore, ella trovasse ancora nel suo cuore la forza di salvare e benedire.. Di sotto al cappello calcato, una lagrima cadde nel mare dall’occhio di Achab: tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia.
Starbuck vide il vecchio, lo vide appoggiarsi pesantemente alla banda, e gli parve d’udire nel suo cuore fedele il singhiozzo smisurato che usciva segreto in mezzo a tutta quella serenità. Attento a non toccarlo e a non farsi notare, gli venne vicino, e si fermò.
Achab si volse.
-Starbuck!
– Signore!
– Oh, Starbuck! E’ un vento dolce, dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo. In un giorno simile, di altrettanta dolcezza, ho colpito la mia prima balena: ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quarant’anni fa! Quarant’anni di caccia continua! Quarant’anni di privazioni e di pericoli e di tempeste! Quarant’anni sul mare spietato! Per quarant’anni Achab ha abbandonato la terra tranquilla, per quarant’anni ha combattuto sull’ orrore dell’ abisso! Proprio così, Starbuck, di questi quarant’anni non ne ho trascorsi a terra tre. Quando penso a questa vita che ho fatto, alla desolazione di solitudine che è stata, all’isolamento da città murata di un capitano che non ammette che ben poche delle simpatie della verde campagna esterna… oh stanchezza! oh peso! Schiavitù africana da comando solitario!… Quando penso a tutto questo, sinora soltanto sospettato, non ho mai veduto così chiaro, e come per quarant’anni non ho mangiato che cibo secco salato, giusto emblema dell’asciutto nutrimento della mia anima! Mentre il più povero uomo di terra ha avuto frutta fresca quotidiana ed ha spezzato il pane fresco del mondo invece delle mie croste muffose.. lontano, lontano oceani interi da quella moglie bambina che ho sposato dopo i cinquanta, mettendo la vela il giorno dopo al Capo Horn e non lasciando nel cuscino nuziale che un’infossatura! Moglie? Moglie? Vedova piuttosto, col marito ancor vivo! Sì, quando ho spostato quella povera ragazza il l’0ho resa vedova, Starbuck. E poi, la pazzia, il delirio, il sangue in fiamme e la fronte bollente con cui, in migliaia di discese il vecchio Achab ha dato la caccia furiosa, schiumosa, alla preda, da demonio più che da uomo! Sì, sì, che stupido è stato per quarant’anni, che stupido, che stupido, che vecchio stupido, è stato Achab! Perché questo sforzo della caccia? Perché spossare, paralizzare il braccio al remo, al rampone, alla lancia ?è più ricco o migliore, ora, Achab? Guarda. Oh, Starbuck! Non è duro che, con questo grande peso che porto, una misera gamba mi debba essere stata strappata di sotto? Via, tira via questi vecchi capelli: mi accecano che sembra ch’io pianga. Capelli tanto grigi vengono soltanto da ceneri! Ma sembro davvero molto vecchio, tanto, tanto vecchio, Starbuck? Mi sento stracco a morte, piegato,ricurvo come se fossi Adamo, barcollante dal tempo del Paradiso sotto il cumulo dei secoli. Dio! Dio! Dio! Spezzami il cuore! Sfondami il cervello! Beffa! Beffa! Amara beffa dei capelli grigi; ho forse provato abbastanza gioia da dovervi portare, e sembrare e sentirmi tanto insopportabilmente vecchio?
Più vicino! Stammi accanto, Starbuck; fammi guardare un occhio umano, è meglio che guardare nel mare o nel cielo, è meglio che guardare in Dio. In nome della verde terra, in nome del focolare acceso! Quest’ è lo specchio magico, marinaio; vedo mia moglie e mio figlio nel tuo occhio. No, no, resta a bordo, a bordo! Non ammainare con me, quando Achab, marchiato darà la caccia a Moby Dick. Tu non dividerai quel rischio. No, no! Non con la casa lontana che vedo in quell’occhio!
– Oh, capitano! Capitano! Anima nobile! Grande vecchio cuore, dopo tutto!Perchè dovrebbe qualcuno dare la caccia a quel pesce maledetto? Vieni con me! Fuggiamo queste acque di morte! Torniamo a casa! Anche Starbuck ha la moglie e il figlio, moglie e figlio della sua fraterna e gioconda giovinezza come i tuoi, signore, sono la moglie e il figlio della tua amorevole e appassionata vecchiaia paterna! Vieni! Andiamo! Lasciami mutare la rotta all’istante! Con quanta allegria, con quanta gioia, o capitano, faremmo la corsa per rivedere la vecchia Nantuchet! Credo, signore, che ci siano altre dolci giornate come questa, a Nantuchet .
– Ci sono, ci sono. Le ho vedute… certi giorni d’estate, al mattino presto. In questo momento -, sì, è la sua ora della siesta, adesso – il ragazzo si sveglia vivace: si siede sul letto e sua madre gli parla di me, di questo vecchio cannibale, che sono lontano, sull’oceano, ma che tornerò ancora per farlo ballare.
– E’ la mia Maria, la mia Maria questa! Ha promesso che ogni mattino avrebbe portato mio figlio sulla collina perchè fosse il primo ad avvistare la vela di suo padre! Sì, sì! Basta! è fatto! Mettiamo la prora a Nantuchet! Vieni, capitano, studia la rotta, e andiamo! Vedi, vedi! La faccia del ragazzo alla finestra! La
mano del ragazzo sulla collina!
Ma lo sguardo di Achab s’era rivolto: come un albero ingolpato egli si scosse e gettò al suolo il suo ultimo frutto incenerito.
– Che cos’è mai, quale cosa senza nome, imperscrutabile e ultraterrena è mai; quale signore e padrone nascosto e ingannatore, quale tiranno spietato mi comanda, perchè, contro tutti gli affetti e i desideri umani, io deva continuare a sospingere, ad agitarmi, a menare gomitate senza posa, accingendomi temerario a ciò che nel mio cuore vero, naturale, non ho mai osato nemmeno di osare? E’ Achab, Achab? Sono io, o Signore, che sollevo questo braccio o chi è? Ma se il sole immenso non si muove da sè, e non è che un fattorino del cielo; se nemmeno una sola stella può ruotare se non per un potere invisibile, come può dunque questo piccolo cuore battere, e questo piccolo cervello pensare, se non è Dio che dà quel battito, che pensa quei pensieri, che vive quella vita, e non Io?Per gli dei, marinaio, noi siamo fatti girare e girare in questo mondo come quel verricello e il destino è l’aspa. E tutto il tempo, guarda! quel cielo sorridente e questo mare senza fondo! Guarda! Quell’albacora? Chi le ha messo in cuore di dare la caccia e mordere a quel pesce-volante? Dove vanno gli assassini, marinaio? Chi dovrà sentenziare, quando il giudice stesso è trascinato alla barra? Ma è un vento dolce, dolce e un cielo dolcissimo, e l’aria odora adesso, come se spirasse da prati lontani;. Hanno tagliato il fieno chi sa dove sotto i pendii delle Ande, Starbuck, e i mietitori dormono ora in mezzo al fieno fresco. Dormono? Proprio, per quanto ci affatichiamo, tutti dormiremo alla fine su un campo. Dormiremo? Sì, e arrugginiremo tra il verde, come le falci dell’anno passato buttate e lasciate fra i mannelli mezzo tagliati, Starbuck.
Ma, sbiancandosi per la disperazione come un cadavere, l’ufficiale l’aveva lasciato.
Achab traversò il ponte per dare un’occhiata dall’altra parte; ma trasalì a due occhi fissi, riflessi nell’acqua: Fedallah era appoggiato immobile alla stessa ringhiera.

Nel capitolo La bianchezza della balena, emergono le istanze filosofiche di Herman Melville. Lo scrittore suggerisce che nell’idea più riposta di questo colore, si nasconde qualcosa di elusivo che produce più panico all’animo di quanto il rosso non spaventi con il sangue. Giunto in fondo agli inferi, Dante non trova le fiamme : i traditori stanno confitti nel ghiaccio, nel candore glaciale.

EPILOGO :

“E io solo sono scampato, per recartene novella”  GIOBBE 

Il dramma è finito. Perchè allora qualcuno si avanza? Perchè uno sopravvisse al naufragio.

“Dopo che il Parsi fu sparito, avvenne che fossi io colui che le Parche destinarono a prodiere di Achab, quando quel prodiere prese il posto vacante; e sempre io colui che, quando l’ultimo giorno i tre uomini furono sbalzati fuori dalla lancia rollante, fu sbattuto a poppa. Così, galleggiando ai bordi della scena che seguì ed essendone in tuto spettatore, quando il risucchio affievolito della nave affondata mi raggiunse, allora venni trascinato, ma lentamente, verso il vortice che si chiudeva. Quando vi giunsi, si era placato in una pozza di lattea schiuma. In tondo, allora, sempre in tondo a circoli via via più stretti che mi avvicinavano alla bolla nera simile a un bottone, sull’asse di quel cerchio che roteava lento, novello Issione io girai. Infine, toccando quel centro vitale, la bolla nera scoppiò; e allora, liberata dalla sua molla ingegnosa e risalita con gran forza, per la sua leggerezza, alla superficie, la bara-salvagente sfrecciò in tutta la sua lunghezza fuor d’acqua, ricadde, e mi galleggiò accanto. Tenuto su da quella bara, quasi per tutto il corso di un giorno e di una notte fluttuai su di un oceano molle e funereo. Inoffensivi, i pescicani mi guizzavano accanto come se avessero un catenaccio alla bocca; i selvaggi falchi marini trascorrevano via col becco inguainato. Il secondo giorno, un veliero si avvicinò e mi raccolse, finalmente. Era la “Rachele” che incrociava raminga  e che, tornando sui suoi passi alla ricerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano.”

Pubblicato da amicoproust

Giuseppe Cetorelli nasce a Roma il 10-07-1982. Compie studi tecnici e musicali. Si laurea in filosofia nel 2007 e consegue il diploma di sax in conservatorio. Appassionato di letteratura e filosofia, scrive racconti, testi per il teatro e recensioni musicali. Autore della raccolta di racconti "Camminando fra gli uomini" ha poi pubblicato un racconto in un volume collettaneo: "Il reduce" - Selenophilia (ukizero) edito da Alter Erebus. È fondatore e amministratore del blog letterario e filosofico www.amicoproust.altervista.org. È redattore del portale di attualità, informazione e cultura ukizero.com ed elzevirista de ilquorum.it. Ha rilasciato un'intervista ai redattori di occhioche.it, quotidiano online. È presente nel catalogo della rivista "Poeti e Poesia" con il racconto "Il Restauratore". È stato presidente e vicepresidente di un'associazione musicale, ha insegnato discipline musicali presso varie scuole private della regione Lazio. I suoi vasti interessi culturali e la propensione all'interdisciplinarietà lo hanno innalzato a vivace promotore di iniziative nei campi dell'arte e della letteratura.

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