William Shakespeare

 SHAKESPEARE

A cura di Giuseppe Cetorelli

“…Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni…”

Shakespeare, William (Stratford-upon-Avon, Warwickshire 1564-1616),poeta e drammaturgo inglese, una delle più grandi personalità della letteratura di ogni tempo e di ogni paese. Le 38 opere teatrali da lui composte rappresentano il vertice dell’arte teatrale. Per tradizione la sua nascita si commemora il 13 aprile, giorno di san Giorgio patrono d’Inghilterra. La famiglia era piuttosto abbiente, anche se attraversò momenti difficili: il padre, Jhon, guantaio e conciatore di pelli, ricoprì varie cariche nel comune di Stratford; la madre, Mary Arden, apparteneva a un ceto socialmente più elevato, essendo figlia di un ricco possidente di Wilmcote. Terzo di otto fratelli, William frequentò la Grammar School del paese natale, ma forse non completò gli studi per sopraggiunti dissesti finanziari. A diciotto anni si unì in matrimonio alla venticinquenne Anne Hathawey, da cui ebbe subito la figlia Susanna, causa delle affrettate nozze, e nel
1585 i gemelli Judith e Hamnet. Le prime opere a stampa di Shakespeare non furono tragedie, bensì due poemetti erotico-mitologici, dedicati al conte Henry Wriothesle di Southampton : Venere e Adone (1593) e Lucrezia Violata (1594), rispettivamente in sestine e in strofe di sette versi. In questo stesso periodo (erano gli anni della peste e i teatri di Londra rimasero chiusi) egli iniziò la stesura dei Sonetti. Il successo gli arrise per molti anni e gli fruttò cospicui guadagni che gli permisero di vivere senza preoccupazioni materiali sino alla fine della sua vita. Nel marzo del 1616 fece testamento, destinando alle figlie i lasciti più sostanziosi; il 23 aprile dello stesso anno morì e fu sepolto nel coro della chiesa della Old Town, privilegio riservato a chi, come Shakespeare, aveva acquistato una parte delle decime (imposte) parrocchiali.

Gli esordi. Gli inizî erano stati quelli di un qualunque aspirante attore del tempo, assunto a giornata dall’una o dall’altra compagnia in ruoli secondarî; ma ben presto egli dovette rivelare il suo talento nel contribuire alla creazione collettiva di nuovi testi drammatici o alla rielaborazione di quelli esistenti, tanto da divenire spesso il collaboratore principale alla stesura di copioni scritti a più mani. Erano nati così sia la tragedia di vendetta sul modello senechiano Titus Andronicus, sia il dramma storico in tre parti Henry VI, sul travagliato regno di Enrico VI, trasformato poi in tetralogia con l’aggiunta di Richard III, sia almeno una commedia, The taming of the shrew. Negli stessi anni collaborò sia a un dramma che avrebbe incontrato difficoltà censorie, Sir Thomas More (infatti non fu mai rappresentato, ma le tre pagine della scena riscritta da S. sono l’unico suo autografo – a parte sei firme in calce a documenti – pervenuto fino a noi), sia a un altro dramma storico, The reign of king Edward III, del quale sono certamente suoi quasi due atti. Allo scoppio della pestilenza egli aveva probabilmente completato (questa volta quasi esclusivamente in proprio) la stesura di un altro paio di commedie, The comedy of errors (sul modello plautino) e The two gentlemen of Verona (un’anticipazione di quelle commedie romantiche all’italiana che scriverà negli ultimi anni del Cinquecento), e della grande tragedia storica Richard III, e aveva forse già avviato opere che, nell’incertezza del presente, si sarebbero potute affidare ai ragazzi operanti nei teatri privati, non soggetti ai provvedimenti di chiusura dei locali pubblici; tale potrebbe essere la destinazione originaria di Love’s labour’s lost (squisita celebrazione della retorica drammatica) e A midsummer night’s dream (fusione del mondo delle fate e di quello quotidiano nella cornice di una visione cavalleresca del mondo classico), e anche della tragedia lirica Romeo and Juliet: opere che si direbbero concepite inizialmente per un pubblico attento soprattutto alle qualità formali della scrittura anche se poi, alla riapertura dei teatri pubblici, rielaborate per un uditorio meno sofisticato e più partecipe. Si noti che Love’s labour’s lost è il primo dramma a stampa di S. che rechi (nel 1598) il nome dell’autore sul frontespizio, quasi per conferirgli dignità letteraria.

 Per questa breve monografia shakespeariana ho scelto i monologhi di due opere celeberrime :  

II MERCANTE DI VENEZIA

Trama. Il nobile Bassanio chiede all’amico Antonio, il mercante di Venezia, tremila denari per corteggiare degnamente la ricca Porzia.  Antonio si fa prestare il denaro dall’ebreo Shylock, che pretende in garanzia una libbra della sua carne. Bassanio, accompagnato dall’amico Graziano, ottiene la mano di Porzia superando una prova stabilita dal padre di lei. A sua volta Graziano sposa Nerissa, ancella di Porzia. Intanto Gessica, figlia di Shylock, è fuggita con un cristiano, Lorenzo, sottraendo denaro al padre. Arriva notizia che le navi di Antonio hanno fatto naufragio; Shylock pretende la sua libbra di carne. Porzia, travestita da avvocato, perora la causa di Antonio davanti al doge, dimostrando che Shylock ha diritto alla carne ma per averla non deve versare una sola goccia del sangue di Antonio; anzi, dev’essere punito con la morte per aver attentato alla vita di un veneziano. Il doge grazia Shylock ma confisca i suoi beni, che saranno divisi tra Antonio e lo stato veneziano. Antonio rinuncia alla sua parte, a condizione che Shylock si faccia cristiano e leghi i suoi beni a Lorenzo e a Gessica.

La critica.   Commedia di non facile definizione, Il mercante di Venezia intreccia trame e generi teatrali diversi in una struttura di perfetta unità in cui le vicende si alternano tra due luoghi opposti e speculari : Venezia, regno della realtà, del giorno, delle certezze, e Belmont, regno dell’illusione, della notte, dei mutamenti. Dominata da due grandi antagonisti, Shylock e Porzia, l’opera raggiunge il punto culminante nella scena del processo, in cui Shylock rivendica “una libbra della bella carne” del mercante Antonio per compiere la sua vendetta contro di lui, e Porzia, in veste di giudice, annienta Shylock con sottile, calcolato istrionismo. Grande commediente e manipolatrice di esistenze altrui, e al tempo stesso giovane donna di limpida sincerità nel suo amore per Bassanio, sarà la stessa Porzia a concludere la commedia nella notte magica di Belmont : tutti i personaggi con l’eccezione del tragico, sconfitto Shylock, le si riuniranno attorno, e lei, da maga imprevedibile nella sua capricciosa benevolenza, scioglierà i nodi di una vicenda complessa e sfuggente.

Il mercante di Venezia non è solo un capolavoro di poesia, è anche l’emblema di una rivendicazione: L’uguaglianza. Tutta l’opera è percorsa da una passione inesausta per l’affermazione dell’unicità degli uomini, una condanna solenne a tutti gli sciocchi distinguo figli di volgari eredità culturali. Se Shakespeare non avesse scritto questo monologo l’umanità sarebbe certamente più povera. Il mercante ebreo altro non fa che rivendicare la sua umanità, la sua appartenenza al genere umano in un’epoca in cui l’ebreo era visto come il deicida, il reprobo, il reietto da tenere a vile e discriminare. Il parossismo di questa violenta reazione si identifica in un monologo immortale: quello del mercante ebreo Shylock.

Di seguito il monologo di Shylock interpretato da Gigi Proietti 

http://www.youtube.com/watch?v=QgBxgHHrKKg

Il testo : 

IL MERCANTE DI VENEZIA (Il monologo di Shylock)

Mi ha disprezzato e deriso un milione di volte;

ha riso delle mie perdite,

ha disprezzato i miei guadagni e deriso la mia nazione,
reso freddi i miei amici,
infuocato i miei nemici.
E qual è il motivo? Sono un ebreo.
Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi,
affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse
armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo,
non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un
cristiano?
Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci
avvelenate noi non moriamo?
E se ci fate un torto, non ci vendicheremo?
Se noi siamo come voi in tutto vi assomiglieremo anche in questo.
Se un ebreo fa un torto ad un cristiano, qual è la sua umiltà? Vendetta.
La cattiveria che tu mi insegni io la metterò in pratica;
e sarà duro ma eseguirò meglio le vostre istruzioni. 

AMLETO

Trama. L’opera è ambientata nella Danimarca feudale e la quasi totalità delle scene si svolgono all’interno del castello di Elsinor, ad eccezion fatta per alcune scene ambientate rispettivamente nello spazio circostante al castello (atto primo, scena prima e scena quarta), nella casa di Polonio (atto primo, scena terza ed atto secondo, scena prima), nella pianura danese (atto quarto, scena quarta) ed all’interno di un cimitero (atto quinto, scena prima).

Il primo atto inizia con due uomini (Bernardo e Francesco) di guardia al castello, raggiunti più tardi da Orazio e Marcello. Un fantasma dalle sembianze del padre di Amleto appare agli uomini ma, improvvisamente e prima di poter parlare, svanisce nel nulla. La notte successiva, dopo essere stato avvertito, il giovane Amleto si unisce alla guardia del castello. Il fantasma riappare ed Amleto riesce a parlargli, dopo averlo seguito, prima che esso scompaia di nuovo. Il fantasma gli rivelerà i veri avvenimenti che hanno preceduto la sua morte, svelandogli l’omicidio da parte del fratello Claudio e chiedendogli di vendicarlo. Da adesso in poi Amleto si fingerà pazzo per confondere chiunque cerchi di prevederlo ed in modo da facilitarsi, quindi, la vendetta.

Dopo la morte del re, Claudio ha sposato la regina, Gertrude. Sia la madre Gertrude che lo zio Claudio sono preoccupati per la presunta pazzia di Amleto e chiedono a due suoi amici di scuola, Rosencrantz e Guildenstern, di trovare la causa del problema.

Una compagnia di attori, la “compagnia stabile della città”, viene invitata al castello con l’intento di risollevare l’animo di Amleto. Amleto chiede agli attori di interpretare “L’Omicidio di Gonzago” (chiamandola in seguito “La trappola per topi”) aggiungendo alcune sue righe al testo. L’interpretazione, raggiungendo l’obiettivo prefissato da Amleto, rende furioso il re, che interrompe la recita. Questo sembra provare agli occhi di Orazio ed Amleto la colpa di Claudio.

Amleto raggiunge la madre nella sua stanza per parlarle. Mentre dialoga animatamente con ella, sente Polonio gridare da dietro le tende. Amleto, credendo si trattasse del re, lo uccide. Claudio, decidendo quindi che Amleto è troppo pericoloso per essere lasciato a piede libero in Danimarca, decide di trasferirlo in Inghilterra con Rosencrantz e Guildenstern, a cui consegna una lettera con l’ordine di uccidere Amleto non appena raggiunta l’Inghilterra. Sulla nave, a causa dell’attacco di una nave corsara, Amleto scopre la lettera e la rimpiazza con un’altra in cui si ordina invece di uccidere Rosencrantz e Guildenstern a viaggio completato. Amleto si dirige di nuovo verso l’Inghilterra. Non appena ritornato in Danimarca, Amleto scopre che Ofelia, impazzita dopo la morte del padre, è annegata. Vedendo Amleto, Laerte lo accusa della morte di Ofelia e Polonio. Per mettere fine alla disputa, il re prepara un incontro di scherma tra Amleto e Laerte, trovando un artificio per uccidere “accidentalmente” Amleto. Claudio avvelena del vino che offrirà ad Amleto alla fine del primo incontro, e Laerte avvelena a sua volta la punta del suo fioretto. Durante il combattimento Gertrude, all’oscuro delle macchinazioni del re, beve dalla coppa riservata ad Amleto. Laerte ferisce Amleto, condannandolo a morte e, scoprendo Amleto che il fioretto è a punta scoperta, attacca furiosamente Laerte. Nello scontro che segue i due si scambiano i fioretti ed Amleto ferisce Laerte. Quasi nello stesso istante, Gertrude cade a terra, affermando che la coppa è avvelenata. Laerte confessa quindi che la morte di Gertrude è opera del re, e che la punta da cui Amleto è stato ferito è avvelenata. Amleto, gridando al tradimento, Trafigge il re. Prima di morire Amleto chiede ad Orazio di fare in modo che tale storia non vada perduta, e di raccontare pubblicamente gli avvenimenti di cui è stato vittima.

Pochi istanti dopo Fortebraccio entra con i suoi soldati nel castello e, impreparato ad un simile scenario di morte, reclama i propri diritti sulla Danimarca. Viene ordinato di esporre sul palco la salma di Amleto, e di annunciare la sua morte con fanfare e salve di guerra.

La critica. Il monologo di Amleto è forse il passo più celebre della letteratura teatrale di ogni tempo. Secondo innumerevoli ed eminenti critici letterari, nessuno come Shakespeare, prima e dopo di lui, è riuscito a cambiarci, così come nessuno è riuscito a creare, nelle sue opere, esemplari di umanità e Io altrettanto autonomi. Secondo molti altri, giudicare un dramma di Shakespeare è come giudicare la vita: nei drammi shakesperiani l’obbiettivo era quello di riportare alla mente la vita nella sua accezione universale, ma soprattutto mostrarci quella parte di essa, attraverso quell’unica e impareggiabile prospettiva, che senza Shakespeare mai avremmo potuto vedere. Sorte irriducibile del più famoso e celebrato principe danese della storia: Amleto, così come il soliloquio essere o non essere (Atto III scena I), non è più grande della vita, ma di quest’ultima è il tentativo di rappresentarne la grandezza.

Shakespeare produsse Amleto come contributo dell’Arte alla Natura. L’idea dell’uomo occidentale, come un Io infinito dalla grande e inesausta responsabilità morale, ha innumerevoli precedenti illustri: Omero, Platone e Aristotele, Sofocle e la Bibbia, Sant’Agostino e Dante – tanto per citarne alcuni. Ma Harold Bloom, uno dei più influenti critici statunitensi, sostiene che la grandezza di Shakespeare stia nell’aver creato la personalità così come la intendiamo noi moderni. Ancor più degli altri prodigi shakesperiani – Rosalinda, Shylock, Iago, Re Lear, Macbeth, Cleopatra, Falstaff – Amleto è da intendersi allora, nei termini del critico americano, l’invenzione dell’umano, l’inaugurazione della personalità dell’uomo moderno.

Per Amleto l’Io è un abisso, inteso come un Caos nel fondo dell’oscurità più totale. Se Edipo è il grande mito della classicità, Amleto – assieme a pochi altri, è senza dubbio il mito della modernità. Amleto è moderno nel vero senso della parola, è l’uomo in continua ricerca di una consapevolezza ideologia, filosofica ed esistenziale. Il Seicento in Inghilterra vede lo scontro tra un mondo medievale ed uno mercantile-borghese, la certezza di Dio e l’ascesa verso un universo da rispiegare. Amleto si ritrova nel mezzo di questo scontro e decide di scappare rifiutando la posizione centrale, cioè quella del protagonista. In questo caso egli esprime non il rifiuto della tragedia d’altri, ma quella di ognuno. Contro la propria volontà, Amleto sarà il grande protagonista della sua personalissima vicenda tragica.

Per Amleto il problema dell’Essere è un sogno inspiegabile, un privilegio per nessuno. Nessun individuo può raggiungere tale statuto ontologico. Amleto quindi è un nostalgico dell’Essere, ed “è” solo quando indossa la maschera della follia. Ma è una follia finta, com’è finta la maschera di ogni attore con la quale recita una finzione drammatica. Amleto è costretto a vivere tutte le contraddizioni della sua epoca: con addosso la maschera di chi ha in pugno un folle e schizofrenico potere, egli si finge pazzo senza esserlo, poi si finge innamorato di Ofelia, conducendola alla pazzia e alla morte, e tutto quello che non è mai stato affiora attraverso un atto di ritorno, dovuto e giusto: innamorato solo dopo averla persa, egli diventa consapevole della sua stessa follia.

La critica romantica ha definito Amleto come una tragedia del pensiero: la grande razionalità del protagonista lo ha reso riluttante all’azione. Kierkegaard e Nietzsche si preoccuparono rispettivamente dell’aspetto religioso e di quello dionisiaco di Amleto, invece gli psicoanalisti hanno riletto l’opera partendo dal complesso di Edipo. Con gli strumenti della filosofia del linguaggio è stata analizzata sotto il punto di vista della dialettica e della struttura semantica, mentre negli ultimi cinquant’anni è sprofondata in una varietà di approcci critici che vanno dallo strutturalismo alla semiotica, dallo neostoricismo al movimento femminista.

Amleto è l’uomo moderno sempre in cerca di una ragione, di un motivo. Una ragione che alla fine troverà le sue fondamenta nella finzione, così come l’uomo Shakespeare le ha trovate nel teatro. O nella morte, con l’unico rimpianto di lasciare in vita le passioni e i grandi sogni. Allora l’Essere, in quanto inarrivabile, diventa finzione, follia e morte.

Di seguito il monologo di Amleto interpretato da Giancarlo Giannini

http://www.youtube.com/watch?v=DKM6iy35iSE

Il testo

AMLETO (Il monologo)

Essere, o non essere…
questo è il problema: se sia più nobil animo
sopportar le fiondate e le frecciate
d’una sorte oltraggiosa,
o armarsi contro un mare di sciagure,
e contrastandole finir con esse.
Morire… addormentarsi: nulla più.
E con un sonno dirsi di por fine
alle doglie del cuore e ai mille mali
che da natura eredita la carne.
Questa è la conclusione
che dovremmo augurarci a mani giunte.
Morire, dormire, e poi sognare, forse…
Già, ma qui si dismaga l’intelletto:
perché dentro quel sonno della morte
quali sogni ci possono venire,
quando ci fossimo scrollati via
da questo nostro fastidioso involucro?
Ecco il pensiero che deve arrestarci.
Ecco il dubbio che fa così longevo
il nostro vivere in tal miseria.
Perchè sopportare
le frustate e i malanni della vita,
le angherie dei tiranni,
il borioso linguaggio dei superbi,
le pene dell’amore disprezzato,
le remore nell’applicar le leggi,
l’arroganza dei pubblici poteri,
gli oltraggi fatti dagli immeritevoli
al merito paziente,
quand’uno, di sua mano, d’un solo colpo
potrebbe firmar subito alla vita
la quietanza, sul filo d’un pugnale?
E chi vorrebbe trascinarsi dietro
questi fardelli, e gemere e sudare
sotto il peso d’un’esistenza grama,
se il timore di un “che” dopo la morte
quella regione oscura, inesplorata,
dai cui confini non v’è viaggiatore
che ritorni – non intrigasse tanto
la volontà, da indurci a sopportare
quei mali che già abbiamo,
piuttosto che a volar, nell’aldilà,
incontro ad altri mali sconosciuti?
Ed è così che la nostra coscienza
ci fa vili; è così che si scolora
al pallido riflesso del pensiero
il nativo colore del coraggio,
ed alte imprese e di grande momento,
a cagione di questo, si disviano
e perdono anche il nome dell’azione.

Pubblicato da amicoproust

Giuseppe Cetorelli nasce a Roma il 10-07-1982. Compie studi tecnici e musicali. Si laurea in filosofia nel 2007 e consegue il diploma di sax in conservatorio. Appassionato di letteratura e filosofia, scrive racconti, testi per il teatro e recensioni musicali. Autore della raccolta di racconti "Camminando fra gli uomini" ha poi pubblicato un racconto in un volume collettaneo: "Il reduce" - Selenophilia (ukizero) edito da Alter Erebus. È fondatore e amministratore del blog letterario e filosofico www.amicoproust.altervista.org. È redattore del portale di attualità, informazione e cultura ukizero.com ed elzevirista de ilquorum.it. Ha rilasciato un'intervista ai redattori di occhioche.it, quotidiano online. È presente nel catalogo della rivista "Poeti e Poesia" con il racconto "Il Restauratore". È stato presidente e vicepresidente di un'associazione musicale, ha insegnato discipline musicali presso varie scuole private della regione Lazio. I suoi vasti interessi culturali e la propensione all'interdisciplinarietà lo hanno innalzato a vivace promotore di iniziative nei campi dell'arte e della letteratura.