Leopardi e L’infinito

Giacomo Leopardi

A cura di Giuseppe Cetorelli

Nato nel 1798 a Recanati e morto nel 1837 a Napoli. Poeta, scrittore e pensatore italiano. Primo di cinque figli del conte Monaldo (un nobile di provincia con ambizioni letterarie ed erudite) e di Adelaide Antici. Si formò interamente nella nutrita biblioteca domestica dei Leopardi. L’ambiente familiare è il luogo dove crebbe la sua tempra intellettuale. Giacomo Leopardi visse un’esistenza segnata dalla solitudine, dalla malattia e  dalle difficoltà economiche.

VITA E OPERE. Nonostante la madre fosse poco espansiva e piuttosto rigida e il padre distratto dai suoi studî, la prima fanciullezza di L. fu lieta, soprattutto per la compagnia dei fratelli Carlo e Paolina, di soli uno e due anni più giovani. Sotto la guida di istitutori privati e del padre medesimo, che avrebbe inizialmente emulato e del quale avrebbe assecondato le ambizioni con un “grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria”, si avviò precocemente agli studî, all’età di undici anni riuscendo tra l’altro a tradurre il I libro delle Odi di Orazio e scrivendo a quattordici due tragedie, La virtù indiana e Pompeo in Egitto. Nello stesso 1812 abbozzò un’erudita Storia dell’astronomia, e nel 1815 il Saggio sugli errori popolari degli antichi; ma l’adolescente molto altro tradusse e scrisse, di poderosa filologia ed erudizione. Era cominciato il periodo di sette anni, come egli stesso disse, di “studio matto e disperatissimo” nel chiuso della ricca biblioteca paterna, che gli minò la gracile complessione. Dopo aver stretto amicizia con P. Giordani (1817), che, intuendone le doti straordinarie, lo confermò nelle sue ambizioni (continuando poi di volta in volta a incitarlo e sorreggerlo), e dopo aver composto l’anno successivo l’importante Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nel 1819 attraversò un periodo di grave crisi: impeditagli dalle condizioni fisiche anche la lettura, non gli rimaneva che meditare, approdando a quella che poi chiamerà “conversione filosofica” e toccando il fondo della disperazione intellettuale e sentimentale. Dello stesso anno è un ingenuo tentativo di fuga da Recanati, facilmente sventato; dal suo “borgo” si allontanò più tardi con il consenso dei genitori per un deludente soggiorno di cinque mesi a Roma (1822-23), dove trasse conforto solo dalla stima e dall’amicizia di alcuni studiosi stranieri. Nel luglio 1825 poté finalmente stabilirsi a Milano stipendiato dall’editore A. F. Stella, per il quale pubblicò un commento a Petrarca (1826) e due crestomazie, di prose (1827) e di versi (1828), di autori italiani. Da Milano nel settembre 1826 si trasferì a Bologna sempre stipendiato da Stella; dal novembre 1826 all’aprile 1827 fu a Recanati; quindi passò di nuovo a Bologna e in giugno a Firenze e (inverno 1827-28) a Pisa, dove registrò poeticamente un “risorgimento” degli affetti. Nel novembre 1828, cessatogli ogni aiuto, dové peraltro tornare a Recanati; ormai, come egli credeva, per sempre. Ma il provvido intervento di P. Colletta, che con delicati sotterfugi lo indusse ad accettare, per un anno, un aiuto pecuniario suo e di altri collaboratori dell’Antologia di G. P. Viesseux con cui era entrato in contatto, gli permise di tornare nel maggio 1830 a Firenze, dove partecipò senza troppo calore di consensi alla fiorente vita letteraria e mondana della città. Qui conobbe A. Ranieri, con il quale, dal dicembre 1830, decise di vivere insieme e di mettere in comune le proprie risorse (dal luglio 1831 sarebbe riuscito a ottenere dalla famiglia un modesto assegno mensile). Nel marzo era stato nominato deputato di Recanati all’assemblea che dopo i moti di quell’anno si sarebbe dovuta tenere a Bologna, ma, prima ancora della repressione dei moti, la sua diffidenza nei confronti di qualsiasi illusione di rinnovamento politico gli impedì persino di accettare la nomina. Nell’ottobre 1831 L. e Ranieri partirono improvvisamente da Firenze per Roma, dove si trattennero sino al marzo 1832, quando tornarono a Firenze. L’improvvisa partenza meravigliò allora amici e parenti: oltre al desiderio di L. di accompagnare a Roma l’amico Ranieri, che vi si recava per seguire l’attrice M. Pelzet di cui era innamorato, c’era probabilmente qualche altra ragione, più personale, che ci sfugge. Certo essa non poté consistere, come più tardi si credette, nell’amore disperato per una signora fiorentina, F. Targioni Tozzetti: questo amore può ritenersi storicamente provato, ma il suo inizio è da collocare probabilmente nella primavera del 1833; esso si concluse con l’estrema delusione due anni dopo, quando già, sin dal settembre 1833, L. era a Napoli con Ranieri. A Napoli L. visse gli ultimi suoi tristi anni: scampato al colera scoppiato nell’ottobre 1836, morì qualche mese dopo per idropisia e conseguente attacco di asma. La sua salma, sottratta dal Ranieri alla fossa comune, fu tumulata a Fuorigrotta, dove più tardi fu eretto un piccolo monumento. I resti di L. furono poi trasportati nel Parco Virgiliano.

Non è esatto quel che si credeva un tempo, che gli studî eruditi e filologici di L. appartenessero alla prima giovinezza di lui e venissero ben presto abbandonati a favore della poesia: in verità L. alternò le due attività almeno sino al 1827 e fornì le prove filologiche migliori negli anni 1823-1827. Abbandonò gli studî di filologia solo nel 1830, quando consegnò i suoi manoscritti di quella materia a L. De Sinner, che aveva promesso di pubblicarli; ma anche negli ultimi anni mandava al De Sinner aggiunte a quei manoscritti, e non cessò mai di considerarli come opera di grandissimo pregio. Tali studî, specie quelli di critica testuale, lodati da B. G. Niebhur, J.-F. Boissonade, F. Nietzsche, U. von Wilamowitz, sono stati nuovamente valorizzati dalla critica più recente, che considera L. come uno dei pochissimi filologi italiani del primo Ottocento che abbia statura europea. Risale al 1816 il suo primo componimento poetico importante, la cantica Appressamento della morte; ma il 1818 è l’anno del vero inizio della sua poesia, con le due canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, alle quali è da collegare strettamente, posteriore di due anni, quella Ad Angelo Mai. Il giovane poeta s’inserisce, con accenti proprî, nella tradizione di eloquente lirica civile e morale che risaliva al Petrarca, avendo come punto di partenza prossimo gli spiriti eroici di Alfieri e del Foscolo alfieriano. Egli non vede intorno a sé che ignavia e codardia: si assume il compito di risvegliare al coraggio e all’azione gli Italiani del suo tempo immemori del loro passato. Pur obbedendo a un imperativo morale addirittura eroico, l’indignato confronto tra la nobiltà degli antichi e la moderna decadenza d’ogni virtù, anziché ispirarsi alle recenti vicende politiche, sembra piuttosto nutrito di considerazioni generalmente antropologiche e ha di mira intanto un orizzonte culturale e letterario, nel quale infatti risulta più efficace e appropriato. Insieme con quella al Mai, avrebbe voluto pubblicare, e non poté farlo per l’opposizione paterna, altre due canzoni di tutt’altro argomento allora composte (Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano di un chirurgo), lasciate da L. anche in seguito fuori dei Canti, ma criticamente interessanti, poiché mostrano un poeta che già alterna ai temi civili la considerazione della privata infelicità. Allo stesso periodo risalgono anche i piccoli idilli, voce di un L. intimo e segreto, che non saranno pubblicati se non nel 1825. Tra l’ottobre del 1821 e il settembre del 1823 furono composte altre sette canzoni (Nelle nozze della sorella PaolinaA un vincitore nel palloneBruto minoreAlla primavera o delle favole anticheUltimo canto di SaffoInno ai patriarchi o De’ principii del genere umanoAlla sua donna), che insieme alle tre precedenti L. pubblicò a Bologna nel 1824 in un volumetto di Canzoni, accompagnate da erudite Annotazioni, che ne giustificano le scelte linguistiche, invocando di volta in volta il buon senso e l’autorità della Crusca. La canzone a Paolina, che è lo sviluppo d’un abbozzo risalente forse al 1819, non è lontana nello spirito dalle prime tre, proponendosi concreti fini educativi: l’uomo superiore non deve deflettere dalle proprie convinzioni, anche se ciò gli costerà l’incomprensione o l’ostilità degli uomini comuni, cioè l’infelicità. Ma già nella canzone A un vincitore nel pallone appare il concetto che ogni meta è deludente e vana, che non c’è nessuna vera differenza tra il combattere per uno scopo che si reputa alto e il combattere per un gioco. E nella canzone cronologicamente contigua, Bruto minore, L. procede ancora oltre: la virtù non è che una “larva”, una parola e non una cosa salda. Bruto riconosce che la rovina di Roma, come la morte di tutto, è una “ferrata necessità”, contro cui è illusorio e vano lottare. Tuttavia, mentre l’uomo comune si consola del male quando lo riconosce necessario, l’uomo superiore non si rassegna al destino: non potendo più fare altro si uccide, e con ciò diventa vincitore nell’atto stesso d’essere vinto. Ma pochi mesi dopo L. compone L’ultimo canto di Saffo, nel quale la poetessa greca si uccide senza intenzioni di rivalsa: si riconosce vinta e, anziché maledire la vita, se ne distacca sconsolata di lasciarla senza averla goduta. Il titanismo genericamente romantico di Bruto giunge così a un passo dalla “fiera compiacenza” più specificamente leopardiana: dall’orgoglio, cioè, di avere lui solo il coraggio di affrontare l’orrido vero, di “strappare ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano”, di non piegare il capo a tale destino; e dall’ebbrezza di dolore che da quell’orgoglio deriva. Questo particolare titanismo, trasferito dall’azione al pensiero, sarà, con diverse modulazioni, motivo di poesia costante in L. sino alla fine, secondo un’estensione del decoro formale classicistico all’ambito etico e intellettuale.

Solo nel 1825, L. si decise a pubblicare nel Nuovo ricoglitore di Milano, con il titolo di Idilli, alcune sue poesie composte tra il 1819 e il 1821: quelle che i critici usano chiamare “i piccoli idilli“, cioè (come s’intitolarono definitivamente): L’InfinitoLa sera del dì di festa; Alla lunaIl sognoLo spavento notturnoLa vita solitaria. Esse contengono alcune delle pagine più alte di tutta l’opera leopardiana. Sono espressioni di una deliberata e fiera solitudine; eppure a esse, nell’edizione 1835 dei Canti, L. premise Il passero solitario, composto assai più tardi, nel quale egli sente come una condanna la sua impossibilità di partecipare alla gioia e alla vita degli altri. Tale esclusione si rivela un autentico motivo informatore, perché dal piano biografico passa facilmente a quello culturale, connotando la condizione di inferiorità in cui versa la poesia moderna rispetto a quella degli antichi, e soprattutto corrisponde all’ideale di linguistica socievolezza cui L. sottopone tanto la sua opzione classicistica, quanto l’ardua sostanza intellettuale del suo messaggio. In questo senso, l’idillismo leopardiano, lungamente preferito dalla critica ai grandi componimenti degli ultimi anni, realizza effettivamente in maniera più compiuta il prodigio di un canto ricavato senza sforzo apparente dalle parole di tutti i giorni e con le immagini che sono sotto gli occhi di tutti: di un canto perciò capace di mettere la semplicità e l’immediatezza al servizio della verità universale del sentimento.

Dal 1823 al 1828, a parte l’epistola Al conte Carlo Pepoli (1826), L. tace come poeta. In questi anni egli porta alle ultime conseguenze il suo pessimismo. L’infelicità umana non è frutto di contingenze particolari a questo o a quell’uomo; e neppure nasce, come aveva creduto in un primo tempo per influsso dei pensatori settecenteschi, da situazioni storiche, dal prevalere della ragione sulla fantasia per effetto dell’avanzare della civiltà, del costituirsi degli uomini in società, che necessariamente tarpa le ali alla libertà e alla spontaneità individuale; ma è una legge di natura, alla quale nessun uomo in nessun tempo, anzi nessun essere può sottrarsi. È quello che gli studiosi chiamano il “pessimismo cosmico” leopardiano. L’uomo non cerca altro che la sua felicità, l’amor sui è l’unica molla della vita; e tuttavia la natura non si propone la felicità degli individui, ma tende soltanto alla propria conservazione, per la quale come sono necessarie le nascite così sono necessarie le morti. La vita non è che un più o meno lento morire: assistiamo intorno a noi, dentro di noi, al progressivo inesorabile sfiorire e morire d’ogni cosa, finché non interviene lo stacco supremo, dopo il quale soltanto si ha, nell’annullamento totale, il definitivo riposo. La vita dunque non è che un'”inutile miseria”: e l’accento del poeta batte soprattutto su questa inutilità. Donde il “tedio”, la grande malattia spirituale dei romantici, di cui L. è il cantore italiano più alto e l’interprete più acuto: la vanità del tutto è per lui implicita nelle aspettative di felicità. Intorno a tali temi, impostano una interrogazione radicale le Operette morali, venti delle quali, il corpo dell’opera, furono tutte scritte dal gennaio al dicembre 1824 (ne scrisse un’altra nel 1825, e ancora due nel 1827, e due nel 1832). La conclusione logica di questa concezione della vita non può essere che una: la necessità del suicidio. E tuttavia, se Porfirio, nel dialogo che s’intitola a lui e a Plotino, energicamente afferma quella necessità, Plotino lo dissuade: non ci è lecito, è da barbari, privarci della consolazione che ci viene dall’affettuosa presenza delle persone che ci vogliono bene, togliendo a queste la consolazione della nostra presenza. È la felice contraddizione da cui nasce la poesia leopardiana. Le Operette sono per lo più dialoghi, in cui spesso L. fa sibilare lo staffile del suo sarcasmo contro gli uomini illusi e vili che si rifiutano di fissare gli occhi sull’orrido vero. A questi toni sarcastici lo scrittore si concede volentieri, riuscendo a governare con mano ferma stridori e dissonanze: nelle Operette è del resto più genericamente ammirevole la lucidità con cui è colta una realtà così totalmente negativa che sembrerebbe non potersi esprimere che con un grido o un disperato gesto. Questa fermezza e questa lucidità si riflettono nella sostenutezza dell’elaboratissimo stile, pur qua e là percorsa e in certo senso sottolineata da abbandoni sentimentali.

Le Operette nascono dunque nella più triste stagione leopardiana: nella quale il poeta è veramente solo, non soccorso dalla sua pietà, dal bisogno di consolare e d’essere consolato. Quando, nel 1828, uscirà da questo orribile stato, dirà che è rinata in lui finalmente la facoltà di piangere, che credeva gli fosse preclusa per sempre. E può quindi comporre poesie “col cuore d’una volta”. Aveva nel Risorgimento (1828) celebrato questo rinascere in lui non della speranza, ma della vita sentimentale: seguono, dallo stesso 1828 al 1830, i canti leopardiani che si designano come “grandi idilli“, e che segnano secondo molti l’apice della sua poesia:A SilviaLe ricordanzeLa quiete dopo la tempestaIl sabato del villaggioIl canto notturno di un pastore errante dell’Asia, e probabilmente anche Il passero solitario. Il pessimismo cosmico assume il suo vero volto poetico: la pietà cosmica. Con il pianto, cioè con la pietà per gli altri e per sé stesso, non sono compatibili né lo sdegno e il disprezzo per i codardi, né l’esaltazione del proprio coraggio. Ma anche quel Pastore errante, che è vittima e non combattente e che non vede intorno a sé bersagli a cui mirare, bensì compagni di pena da compiangere, anche egli non si rassegna, non viene a patti con il destino; e perciò in sostanza combatte ancora: sconsolato titano sconfitto, a cui però resta l’amaro conforto di non essere stato e di non essere vile. In questo gruppo di mirabili poesie, sui toni agonistici e titanici, che pur non mancano, prevalgono quelli di raccolto solidale dolore; i quali a loro volta non erano mancati neppure nel L. eroico-alfieriano, e non mancheranno mai. La pietà di L. è attiva, vuole consolare; e consolare non si può chi per viltà chiude gli occhi al vero, accetta la realtà supinamente o per “fetido orgoglio”. Pietà e consolazione non possono volgersi a chi soffre, e in primo luogo ai giovani, che per la loro ingenua fiducia nella vita, per la loro inesperienza non sono in grado di capire la legge universale dell’infelicità, e s’illudono di essere felici, e soprattutto di esserlo domani. Intorno al Canto notturno, gli altri grandi idilli si possono considerare tessuti tutti sul tema della speranza, una speranza vista non nel suo valore positivo, forza della vita, bensì considerata con la tenerezza di chi ne conosce la vanità: lo sbocciare e il fruttificare della speranza in Silvia, in Nerina, in sé stesso giovane, la morte e la vita stessa che la tradiscono, in A Silvia e nelle Ricordanze; l’aspettativa d’una gioia che non verrà, nelle appena accennate figure del Sabato; il risorgere dell’alacre gioia, dell’attaccamento alla vita dopo la tempesta, in quelle altre umili figure che affollano nitide la Quiete. Se la speranza è per L. giovinezza, giovinezza è per lui, sempre, compagnia: la gioia di ciascuno si riflette e ha senso nella gioia corale del borgo: il poeta del Passero solitario si rammarica appunto di non saper partecipare, pur giovane, a questo coro; dunque di non sapere essere giovane.

Dopo il 1830, si ha un’altra pausa nell’attività poetica di L., colmata nel 1832 dalle due ultime Operette. Poi, l’estrema illusione, l’estremo inganno: l’amore per F. Targioni Tozzetti, da vicino e da lontano, che come abbiamo detto deve essere collocato probabilmente negli anni 1833-35. Nascono cinque altre poesie, costituenti un ciclo, detto “di Aspasia”. Dall’estasi d’un dolce Pensiero dominante, che rafforza l’intransigenza morale, lo sdegno per ogni umana viltà; dall’esaltazione dell’amore come del piacere maggiore che si trova nel mare dell’essere, fratello in ciò solo della morte (Amore e morteConsalvo, che è la meno intensa drammatizzazione della precedente poesia), si passa, quando la grande illusione sarà caduta, ai secchi, terribili versi di A se stesso, lirica epigrafe mortuaria, e poi alla rappresentazione, più pacata ma carica di amarezza, delle circostanze dell’inganno (Aspasia). Si alternano in questo ciclo i toni eroici della speranza impossibile, con le invettive e i sarcasmi della disperazione, che sembra quasi suggerire i modi rinnovati di una espressione in cui ormai coincidono intensità e rigore. Gli ultimi anni napoletani sono caratterizzati, come sempre nei periodi leopardiani di più nera depressione, da scritti satirici (la Palinodia diretta a G. Capponi; lo scherno dei tentativi risorgimentali nei Paralipomeni alla Batracomiomachia, della fede religiosa neiNuovi credenti). Ma insieme c’è un lento risalire dalla china, come mostrano, non tanto le canzoni Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna, quanto la già citata La ginestra, e soprattutto Il tramonto della luna, nel quale canto vi sono gruppi di versi degni della proverbiale eloquente felicità dei grandi idilli. Postumi furono pubblicati, con le cose minori, il ricco Epistolario (a cura di P. Viani, 1849; a cura di F. Moroncini e G. Ferretti, 7 voll., 1934-41) e loZibaldone di pensieri: 4526 pagine nel manoscritto, nelle quali L. dal 1817 al 1832 andò via via segnando, con maggiore o minore frequenza, quanto le sue letture e la sua meditazione gli andavano suggerendo sui più svariati argomenti (pubbl. col tit.Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, a cura di una commissione di studiosi presieduta da G. Carducci, 7 voll., 1898-1900; la più recente ed. critica, col tit. Zibaldone di pensieri, è a cura di G. Pacella, 3 voll., 1992); da esso per la maggior parte L. stesso trasse e rielaborò i centoundici Pensieri, pubblicati postumi (in Opere di G. L., a cura di A. Ranieri, 2 voll., 1845). Dei Canti si ebbero due diverse edizioni in vita di L.: presso Piatti (Firenze 1831) e presso Starita (Napoli 1835); più complessa la storia delle Operette morali, la cui 1ª ed. in volume apparve a Milano nel 1827 e la 3ª, incompleta, a Napoli nel 1835. Le prime edd. critiche si debbono a F. Moroncini: Canti (2 voll., 1927); Operette morali (2 voll., 1928);Opere minori approvate (2 voll., 1931). Oltre alle edd. complessive (Tutte le opere di G. L., a cura di F. Flora, 5 voll., 1937-49; Tutte le Opere, a cura di W. Binni e E. Ghidetti, 2 voll., 1969), sono disponibili varie sillogi e singole edd., con ottimi commenti, apparati, riproduzione degli autografi. È stata avviata la pubblicazione degli scritti filologici e sono state approntate le concordanze dell’intera opera poetica.

A chi lo avesse incontrato sarebbe apparso così: 

“Di statura mediocre, chinata ed esile, di colore bianco che volgeva al pallido, di testa grossa, di fronte quadra e larga, d’occhi cilestri e languidi, di naso profilato, di lineamenti delicatissimi, di pronunziazione modesta e alquanto fioca, e d’un sorriso ineffabile e quasi celeste”.

Testimonianza di Antonio Ranieri

(patriota e scrittore, fedele amico di G. Leopardi)

  L’infinito

«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare»

Seguono le interpretazioni di Vittorio Gassman, Carmelo Bene e Giorgio Albertazzi

Opera di un’intera vita, i Canti raccolgono le liriche scritte da Leopardi tra il 1817 e il 1836. Con questo titolo, assolutamente nuovo nella tradizione poetica italiana, il libro nasce nel 1831, quando l’autore fonde le due raccolte edite in precedenza (le dieci canzoni del 1824 e i versi, comprendenti gli idilli, del 1826) con il gruppo dei nuovi componimenti pisano-recanatesi scritti tra il 1828 e il 1830. Da quel momento i testi sono raccordati per comporre un libro che testimonia insieme la “storia di un’anima” e l’universale infelicità dei viventi.

La visione esistenziale del poeta recanatese è permeata dal disincanto di una vita che si estrinseca entro il tempo e che non può sussistere al di fuori di esso. Per Leopardi la vita è tutta qui, sulla terra, entro il tempo ed immersa nello spazio. La morte è l’evento definitivo, il suggello della vita, il gorgo da cui non si ritorna.

…Morte ti chiama; al cominciar del giorno
L’ultimo istante. Al nido onde ti parti,
Non tornerai. L’aspetto
De’ tuoi dolci parenti
Lasci per sempre. Il loco
A cui movi, è sotterra:
Ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno.
Forse beata sei; ma pur chi mira,
Seco pensando, al tuo destin, sospira.

(Canto XXX, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire)

Pubblicato da amicoproust

Giuseppe Cetorelli nasce a Roma il 10-07-1982. Compie studi tecnici e musicali. Si laurea in filosofia nel 2007 e consegue il diploma di sax in conservatorio. Appassionato di letteratura e filosofia, scrive racconti, testi per il teatro e recensioni musicali. Autore della raccolta di racconti "Camminando fra gli uomini" ha poi pubblicato un racconto in un volume collettaneo: "Il reduce" - Selenophilia (ukizero) edito da Alter Erebus. È fondatore e amministratore del blog letterario e filosofico www.amicoproust.altervista.org. È redattore del portale di attualità, informazione e cultura ukizero.com ed elzevirista de ilquorum.it. Ha rilasciato un'intervista ai redattori di occhioche.it, quotidiano online. È presente nel catalogo della rivista "Poeti e Poesia" con il racconto "Il Restauratore". È stato presidente e vicepresidente di un'associazione musicale, ha insegnato discipline musicali presso varie scuole private della regione Lazio. I suoi vasti interessi culturali e la propensione all'interdisciplinarietà lo hanno innalzato a vivace promotore di iniziative nei campi dell'arte e della letteratura.