Joyce e la sua Odissea

JOYCE

A cura di Giuseppe Cetorelli

Scrittore irlandese (Dublino 1882 – Zurigo 1941). Tra i massimi autori del Novecento, dopo una prima fase in cui la sua scrittura evolve in stretta aderenza ai canoni espressivi tradizionali della prosa narrativa, animata – come magistralmente attesta la raccolta di racconti Dubliners (1914; trad. it. Gente di Dublino, 1933) – dai temi della stagnazione e dell’inettitudine umana al vivere, si allontana da ogni convenzione formale e logica con Ulysses (trad. it. 1960), il romanzo che forse più ha inciso sulla storia della letteratura europea contemporanea. Qui, lasciate liberamente fluire le costellazioni interiori del pensiero prima che esso si faccia parola – in ciò valendosi anche dei primi portati teorici della nascente psicanalisi – , J. rifonda il genere del romanzo facendovi assurgere a imprescindibile presenza l’individualità dell’orizzonte psichico umano colto all’interno della estraniante realtà del quotidiano; tale prospettiva troverà una sua quasi fisiologica estremizzazione inFinnegans wake (1939; trad. it. di Frammenti scelti nel 3º vol. di Tutte le opere di J. J., 1961; dei primi quattro capp., 1982), opera in cui echeggia, atomizzata, tutta la cultura occidentale, e che sfugge a ogni possibile classificazione critica.

VITA. Studiò in collegi di gesuiti e poi all’università di Dublino, distinguendosi come linguista; nel 1902, abbandonata la religione cattolica, insofferente dei ristretti orizzonti culturali del suo paese, si recò a Parigi, dove studiò per qualche tempo medicina. Tornato a Dublino per la morte della madre, lasciò definitivamente la città nel 1904. Visse a Trieste città marcatamente mitteleuropea (dove conobbe Italo Svevo e, divenendone amico, ne incoraggiò l’opera) insegnando alla Berlitz School, a Zurigo e a Parigi. Esule volontario, estraneo alla “rinascita celtica”, ha fatto di Dublino il luogo centrale dei suoi libri, descrivendola con minuziosa precisione.

OPERE. Esordì con Chamber music (1907; trad. it. 1943), un volume di versi, secondo lo stile degli elisabettiani e dei poeti dell’ultimo Ottocento, dove è già evidente la eccezionale abilità di stilista e l’accentuata sensibilità musicale (E. Pound ne accolse un componimento nell’antologia De imagistes, 1914). Seguirono la già citata Dubliners, una raccolta di racconti, efficace quadro del mondo dublinese, e un romanzo a sfondo autobiografico che, rifiutato dagli editori, diede alle fiamme (parte del manoscritto, salvato dalla moglie, è stata pubblicata postuma con il titoloStephen Hero, 1944; trad. it. 1950). Rifatta, l’opera apparve col titolo A portrait of the artist as a young man (1916; trad. it. di Cesare Pavese col titolo Dedalus, 1933): mentre Dubliners conserva la scrittura oggettiva tradizionale, qui il racconto è tutto svolto in un’unica prospettiva, quella dettata dal monologo del protagonista. Dopo un dramma, Exiles (1918; trad. it. 1944), nel 1922 Ulysses al quale lavorava dal1914, giudicato opera pornografica da editori inglesi e americani, fu pubblicato a Parigi da S. Beach (la 1a ed. americana è del 1934, quella inglese del 1936). È con quest’opera che J. rompe ogni legame con la tradizione e realizza, anzi porta alle estreme conseguenze, la libertà dello scrittore moderno auspicata da Virginia Woolf personaggi sono tre, ciascuno con un linguaggio, una struttura mentale e, soprattutto, un “tempo” diversi. Per organizzare questo tempo individuale e seguire il “flusso di coscienza” di ciascuno, J. ha stabilito un tempo orario ben preciso, ventiquattro ore, un luogo inconfondibile, Dublino, e una scansione della materia narrativa in capitoli, ciascuno dei quali si ricollega a un episodio dell’Odissea. All’interno di questa struttura la libertà di associazione e di ricerca è illimitata. L’opera richiamò subito su Joyce l’attenzione di tutto il mondo letterario, lasciando la critica perplessa e divisa. J. non soltanto si valeva della psicanalisi per sondare l’inconscio, e seguiva in tal modo la strada dei maggiori scrittori suoi contemporanei, ma cercava di bruciare ogni riconosciuta struttura tecnica, filosofica o religiosa. Il frequente ricorso all’allegoria fa sì che una parola o un episodio non abbiano mai un unico significato; J. varia abilmente lo stile per ciascun personaggio, inventa parole nuove in base a sottili associazioni di idee e affinità di suoni e riesuma termini desueti. Questo procedimento è ripreso nel libro successivo, Finnegans wake, in cui J. approda a uno sperimentalismo spinto alle estreme conseguenze, a un linguaggio retto da leggi assolutamente personali fino ai limiti dell’incomprensibilità. In quest’opera, dove predominano i valori musicali e ritmici, la disintegrazione del romanzo tradizionale è completa. Ulysses scende nell’inconscio allo stato di veglia, Finnegans wake allo stato di sonno; nessuno, né prima né dopo, ha colto con tanta disincantata ironia le infinite possibilità del regno onirico; elementi eroici, mitologici, teologici, razionali e umani si mescolano senza soluzione di continuità se si esclude quella dettata da leggi di associazione individuale. Tra le opere pubblicate in vita va ricordato un altro vol. di versi, Pomes penyeach (1927; trad. it. Poesie da un soldo,1949). Postumi, oltre al citato Stephen Hero, sono apparsi, tra l’altro: un vol. diLetters (1957), seguito da altri due (1966); The critical writings of J. J. (1959); il frammento narrativo Giacomo Joyce (1967; trad. it. 1968), scritto nel 1914. In Italia, oltre alle singole traduzioni citate, sono apparsi l’ed. completa delle Poesie(1961), una scelta di Lettere (1974) e sono stati pubblicati gli Scritti italiani (1978).

ULISSE (1922) è l’opera  che diede fama internazionale a Joyce, e che costituisce una delle più grandi interpretazioni dell’uomo contemporaneo, assieme alla Recherche di Marcel Proust e all’Uomo senza qualità di Robert Musil. L’opera, vera e propria rivoluzione letteraria rispetto al romanzo ottocentesco, racconta una giornata della vita dell’ebreo irlandese Leopold Bloom e, parallelamente, la stessa giornata vissuta da Stephen Dedalus, giornata che culmina con l’incontro delle due figure : Bloom si muove nell’inconscia  e simbolica ricerca di un figlio, e Stephen, altrettanto inconsciamente, alla ricerca di una figura paterna che faccia da punto di riferimento alle sue inquietudini intellettuali.

Il romanzo, che registra la realtà attraverso il flusso di coscienza, tenta di presentare una summa degli aspetti dell’uomo moderno e insieme di rintracciare un filo, un ordine, dentro il caos anarchico della realtà contemporanea. Questo fondamentale romanzo della cultura occidentale apparve a puntate sulla rivista statunitense “Little Review” dal 1918 al 1920, anno in cui la pubblicazione fu interrotta perchè i contenuti furono giudicati osceni. La prima edizione completa apparve a Parigi nel 1922.

Nell’Ulisse, Joyce adottò una tematica semplice anche se fece ricorso agli artifici più eleborati per presentarla. Come altri grandi scrittori egli avvertì l’insufficienza dei metodi che la tradizione letteraria gli offriva e si propose di oltrepassarli. Sparisce la figura del narratore – che nei romanzi precedenti conduceva per mano il lettore lungo l’azione – sostituita nell‘Ulisse da una serie di narratori, solitamente inaffidabili, che emergono e scompaiono senza poter essere identificati. Talora la narrazione è impersonale : in un episodio, quasi a voler deridere l’impersonalità esagerandola, un occhio “cinematografico” vaga casualmente per Dublino, riprendendo squarci di vita urbana apparentemente scevri di rapporti tra loro. La tematica del libro di Joyce invade la nostra privacy. Quelle che un tempo venivano considerate esperienze troppo private per la letteratura, come ad esempio l’andare in bagno appaiono qui naturali. Il trattamento della lingua, che Joyce persegue sempre, assume qui le forme più svariate. Si avverte, dietro i molteplici travestimenti, la presenza straripante di un autore che mai ammette la sua presenza nel libro.

Passi (ULISSE)

Esordio :

“Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro, al soffio della mite aria mattutina…”

MONOLOGO  DI  MOLLY  BLOOM  (stralcio)

“…eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweedl grigio e la paglietta / il giorno che gli feci fare la dichiarazione / sì prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotti all’anice / e era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa / Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato / sì disse che ero un fior di montagna / sì siamo tutti fiori / allora un corpo di donna / sì è stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua / e il sole splende per te oggi / sì perciò mi piacque / sì perché vidi che capiva o almeno sentiva cos’è una donna / e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo / e gli detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto / finché non mi chiese di dir di sì / e io dapprincipio non volevo rispondere / la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all’elmetto bianco / povero diavolo mezzo arrostito / e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli / e quei pettini alti / e le aste la mattina i Greci e gli ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d’Europa / e Duke street e il mercato del pollame / un gran pigolio davanti a Larby Sharonl / e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati / e gli uomini avvolti nei loro mantelli / addormentati all’ombra sugli scalini / e le grandi ruote dei carri dei tori / e il vecchio castello vecchio di mill’anni / sì e quei bei Mori tutti in bianco / e turbanti come re / che ti chiedevano di metterti a sedere in quei loro buchi di botteghe / e Ronda con le vecchie finestre delle posadas / fulgidi occhi celava l’inferriata / perché il suo amante baciasse le sbarre / e le gargotte mezzo aperte la notte / e le nacchere / e la notte che perdemmo il battello ad Algesiras / il sereno che faceva il suo giro con la sua lampada / e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo / Oh e il mare / il mare qualche volta cremisi come il fuoco / e gli splendidi tramonti / e i fichi nei giardini dell’Alameda / sì e tutte quelle stradine curiose / e le case rosa e azzurre e gialle / e i roseti e i gelsomini e i geranii e i cactus / e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna / sì quando mi misi la rosa nei capelli / come facevano le ragazze andaluse / o ne porterò una rossa / sì / e come mi baciò sotto il muro moresco / e io pensavo be’ lui ne vale un altro / e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora / sì allora mi chiese se io volevo / sì dire di sì / mio fior di montagna / e per prima cosa gli misi le braccia intorno / sì e me lo tirai addosso / in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato / sì e il suo cuore batteva come impazzito / e sì dissi / sì voglio / sì.

Segue l’interpretazione di Stefania Rocca nella macchina teatrale “Totem”, regia di Alessandro Baricco alla fine degli anni novanta.

http://www.youtube.com/watch?v=u12A9QTadhs

La critica

Nel 1917 James Joyce spiegava a Georges Borach : ” Il più bello e interessante dei soggetti è quello dell’Odissea. E’ più grande e più umano di quello dell’Amleto, superiore al Don Chisciotte, a Dante, al Faust… A Roma, quando avevo finito circa la metà  del Portrait, mi resi conto che l‘Odissea doveva esserne il seguito “. E cominciò a scrivere l’Ulisse, che uscì a Parigi il 2  febbraio 1922, giorno del suo quarantesimo compleanno, per iniziativa di un’intraprendente americana di Baltimora, la ventitreenne Sylvia Beach. Sei anni di intenso lavoro, di stesure e continue revisioni per trasformare il grande mito in grande pantomima. Diciotto capitoli, diciotto luoghi, diciotto ore e momenti, diciotto stili, una miriade di personaggi e situazioni per raccontare l’eroicomica giornata di un ebreo irlandese di origini magiare, l’agente pubblicitario Leopold Bloom. Un uomo a spasso per Dublino dalle otto alle due di notte del 16 giugno 1904:  le sue azioni, i suoi pensieri, le azioni e i pensieri della città , delle cose, della gente che incontra, di Stephen Dedalus, ovvero l’altra parte di sè, il giovane intellettuale in cerca di un padre (così come Bloom è in cerca di un figlio), di sua moglie Molly, ovvero il grembo da cui si salpa e cui si ritorna. Se non il più bello di certo il più decisivo libro del XX secolo. 

Di seguito l’intervista a Carmelo Bene sull’opera di James Joyce

Prima parte :

http://www.youtube.com/watch?v=Lv7gGkQabz0

Seconda parte :

http://www.youtube.com/watch?v=831235Pe3PE

Carmelo Bene legge l’Ulisse di J. Joyce

http://www.youtube.com/watch?v=qQcEkjCGxzU

 

Pubblicato da amicoproust

Giuseppe Cetorelli nasce a Roma il 10-07-1982. Compie studi tecnici e musicali. Si laurea in filosofia nel 2007 e consegue il diploma di sax in conservatorio. Appassionato di letteratura e filosofia, scrive racconti, testi per il teatro e recensioni musicali. Autore della raccolta di racconti "Camminando fra gli uomini" ha poi pubblicato un racconto in un volume collettaneo: "Il reduce" - Selenophilia (ukizero) edito da Alter Erebus. È fondatore e amministratore del blog letterario e filosofico www.amicoproust.altervista.org. È redattore del portale di attualità, informazione e cultura ukizero.com ed elzevirista de ilquorum.it. Ha rilasciato un'intervista ai redattori di occhioche.it, quotidiano online. È presente nel catalogo della rivista "Poeti e Poesia" con il racconto "Il Restauratore". È stato presidente e vicepresidente di un'associazione musicale, ha insegnato discipline musicali presso varie scuole private della regione Lazio. I suoi vasti interessi culturali e la propensione all'interdisciplinarietà lo hanno innalzato a vivace promotore di iniziative nei campi dell'arte e della letteratura.

Una risposta a “Joyce e la sua Odissea”

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